Per oltre un secolo il Mezzogiorno ha rappresentato un serbatoio di lavoro per il resto del Paese: una popolazione sistematicamente eccedente rispetto alle capacità dell’economia locale ha infatti alimentato per decenni i flussi migratori interni e continua ancora a farlo.
Le ragioni di fondo della persistenza del flusso migratorio tra Mezzogiorno e Centro-Nord Italia sono ben semplificate da un indicatore economico di base come il Prodotto Interno Lordo (PIL). Nei dieci anni tra il censimento del 1951 e quello del 1961 la produzione industriale crebbe del 120% e il reddito nazionale del 78%. Quasi completamente concentrata nel cosiddetto triangolo industriale Genova-Torino-Milano.
Negli anni del “miracolo economico” nella sola Lombardia il numero degli operai nell’industria aumentò di 200.000 unità, facendo di Milano uno dei più grossi centri industriali d’Europa. Ancora più impetuosa fu la crescita del settore terziario.
I giovani, generalmente scapoli erano i primi a partire. Erano i più scontenti e i più determinati. Per i giovani provenienti da Mezzogiorno l’attrazione delle città del Settentrione divenne “irresistibile”. Si racconta che di sera, nelle piazze dei paesi meridionali, non si parlava d’altro. Una realtà in bianco e nero che si rifletteva nei servizi che la Rai trasmetteva, in una televisione anch’essa a due tonalità e dove nel bar della piazza di tanti paesi del Sud Italia potevano vedersi quelle immagini di un Nord quasi come una terra promessa, di un nuovo mondo consumistico fatto di Vespe, radio portatili, campioni sportivi, nuove mode, case piene di elettrodomestici, automobili ecc. Un mondo irresistibile che parlava di modernità e di benessere, di lavoro ben retribuito e di una nuova speranza di vita lontana dalla fatica quotidiana delle campagne di quel Sud che Manlio Rossi-Doria aveva così efficacemente definito dell’Osso.
Chi sceglieva di emigrare dal Sud proveniva soprattutto dalle zone rurali più povere, dai paesi collinari e di montagna e sceglieva essenzialmente tra due alternative: il cuore industriale dell’Europa del nord (in particolare la Germania occidentale) o le grandi città industriali dell’Italia settentrionale.
Si consideri che dal 1954 la rilevazione anagrafica consente di conoscere correttamente l’origine e la destinazione dei trasferimenti che avvengono tra i comuni e permette così di esaminare in dettaglio gli scambi tra le due grandi aree del Paese. Il flusso tra Mezzogiorno e Centro-Nord ha raggiunto la sua massima intensità nel triennio 1961-1963, con un picco nel 1962 di quasi 306 mila unità, anche per effetto delle regolarizzazioni post-censuarie e dell’abolizione, nel 1961, delle norme fasciste contro l’urbanesimo che impedivano a molti migranti di poter registrare i propri spostamenti, relegandoli di fatto nel limbo della irregolarità e della clandestinità. Sempre in questo triennio si registrarono anche i massimi livelli di perdita migratoria del Mezzogiorno, con un deflusso netto complessivo nei tre anni (1961-1963) pari a 672 mila unità.
In cinque anni, dal 1958 al 1963, si trasferirono dall’Italia meridionale un milione e trecentomila persone. La città di Torino, che conobbe uno straordinario fenomeno immigratorio, registrò 64.745 nuovi arrivi nel 1960, 84.426 nel 1961 e 79.742 nel 1962. Il flusso migratorio fu così ingente che le Ferrovie dello Stato istituirono un apposito convoglio, detto “Treno del Sole”, che partiva da Palermo e arrivava a Torino dopo aver attraversato tutta la penisola italiana.
Le migrazioni dall’Italia meridionale, sebbene rallentate, non si esaurirono, facendo aumentare la loro percentuale rispetto alle migrazioni interne totali: se tra il 1952 e il 1957 esse rappresentavano il 17% del totale, le migrazioni dal Sud del Paese passarono a costituire, tra il 1958 e il 1963, il 30% del totale.
L’ultimo picco di trasferimenti dal Sud al Nord dell’Italia si ebbe tra il 1968 e il 1970. A Torino nel 1969 vennero registrati 60.000 arrivi, metà dei quali provenivano dall’Italia Meridionale, mentre in Lombardia, nello stesso anno, giunsero 70.000 immigrati. A Torino questo picco migratorio fu acuito dalla FIAT, che fece un’importante campagna di assunzioni: solo nell’azienda torinese vennero assunti, in questi anni, 15.000 migranti provenienti dal Sud. I comuni dell’hinterland aumentarono la popolazione di oltre l’80%. Il flusso di immigrati dal Sud era così massiccio e continuo che, alla fine degli anni ’60, Torino divenne la terza più grande città “Meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. Puglia, Sicilia e Campania furono le regioni meridionali che persero il maggior numero di abitanti. Tale costante flusso di persone fece crescere la popolazione di Torino dai 719.000 abitanti del 1951 al 1.168.000 del 1971, creando non pochi disagi sociali per i nuovi arrivati.
Nel 1970 si arrivò a un nuovo massimo con quasi 243 mila trasferimenti anagrafici e una perdita netta di 150 mila unità. Raggiunto questo picco, si avviò una fase discendente che portò nel 1974 l’intensità del fenomeno al di sotto delle 200 mila unità. Tra il 1975 e il 1995 le uscite dal Sud hanno continuato ad essere tendenzialmente discendenti, con alcuni momenti di ripresa. Netta la crescita del flusso migratorio nell’ultimo quinquennio del Novecento, alla cui conclusione (2000) si è raggiunto il massimo, dell’ultimo quarto di secolo, 147 mila uscite registrate. E l’emorragia oramai secolare delle popolazioni meridionali non ha nessuna intenzione di segnare il passo.
“È ripartita l’emigrazione dal Sud al Nord. In 20 anni è come se Napoli si fosse trasferita”, titola il Corriere della Sera in un articolo pubblicato il 10 novembre del 2016. Nell’ultimo ventennio il Mezzogiorno ha perso 1 milione e 113 mila di abitanti. Nei 7 anni della crisi (dal 2008 al 2015) il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati.
Si stima in circa sei milioni i trasferimenti interni dalle aree del Mezzogiorno al Centro-Nord Italia nell’arco di mezzo secolo di migrazioni interne.
Per concludere vorrei limitarmi a citare uno studio che nel 2009 le Università di Genova, di Pisa, L’Aquila e Bari rendono pubblico, si tratta di una statistica che stimando un campione di secondo livello sulla presenza di individui del Mezzogiorno d’Italia nelle altre regioni, rende noti dati che definirei a dir poco sconvolgenti: Piemonte 31%, Lombardia 43%, Veneto 29%, FVG 21%, Emilia Romagna 34%, Liguria 21%, Toscana 18%, Lazio 38%.
Il Mezzogiorno si caratterizza dunque per una cronica mancanza di opportunità lavorative e professionali in ogni settore: culturale, sociale, civile, per cui diventa prevedibile che i giovani soprattutto quelli più dinamici, di talento e di maggiore professionalità, altro non possono fare che prendere la strada del Centro-Nord Italia e d’Europa.
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