Non ci interessa più avere un programma per sempre installato nel nostro computer, piuttosto preferiamo sottoscrivere un abbonamento che ci permetta di utilizzarlo online.
Oggi non si compra più, ci si abbona! Quasi nessuno compra più un film, ma lo si guarda su Netflix. Quasi nessuno acquista un cd del proprio cantante preferito, ma lo ascolta su Spotify. Il futuro è in abbonamento. Già oggi si stima che l’85% degli europei usufruisca di un servizio in abbonamento. La Subscription Economy corrisponde ad un modello economico che si basa sulla fruizione di servizi e prodotti attraverso la modalità dell’abbonamento periodico.
Il fenomeno parte dagli USA, ma da anni stiamo assistendo a una crescita di interesse esponenziale anche in Italia. I prodotti pionieri sono stati i software: non ci interessa più avere un programma per sempre installato nel nostro computer, piuttosto preferiamo sottoscrivere un abbonamento che ci permetta di utilizzarlo online, per il tempo che noi decidiamo. Esempi di servizi che permettono di avere accesso a film e serie TV, come Netflix o Sky On Demand, o Spotify con la musica, ne sono la modalità più comune e conosciuta. In questo modo si ha la possibilità di scegliere cosa vedere e quando, e questa libertà piace agli utenti, che sempre più spesso preferiscono gestire in autonomia come godere dei servizi dedicati. Inoltre la personalizzazione dei servizi solleva il cliente dall’onere di fare una cernita tra ciò che soddisfa i suoi gusti e le sue esigenze e ciò che non lo fa: scorre un elenco di risultati scelti per lui in base a un profilo che gli viene cucito addosso.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un costante aumento del numero di settori produttivi riconducibili alla Subscription Economy, il modello di business è abbastanza facile da capire: invece di creare un prodotto di successo che sarà “Venduto una volta”, si offre un valore costante sottoforma di nuovi contenuti, maggiore personalizzazione e accesso agli aggiornamenti per i quali i clienti pagano tramite un abbonamento mensile o annuale. In questo modo le aziende riescono a costruire relazioni più solide con i loro clienti incrementando esponenzialmente le loro performance economiche. Per un cliente accettare di abbonarsi ad un qualunque servizio offerto significa che non si è proprietari del prodotto, ma semplice utilizzatore. Sondaggi recenti suggeriscono che il 68% degli adulti non apprezza più la proprietà di un qualsiasi bene-servizio e non ritiene necessariamente tale proprietà anche perché cosa conta è l’esperienza che scaturisce dall’uso di un sevizio e non l’appartenenza di esso.
Esperienza, questa è la parola magica che sottende alla Subscription Economy . Per usare un semplice esempio: alla maggior parte di noi può non interessa particolarmente possedere un DVD, ma apprezziamo l’esperienza di guardando il film. Non è assolutamente necessario acquistare un DVD se si può semplicemente guardarlo su un servizio di streaming video. Inoltre, il 70% degli adulti afferma che la manutenzione e i costi associati alla proprietà di beni materiali è oneroso e che preferirebbero abbonati a un servizio che si occupa di questi “oggetti”. Il dipartimento di economia di ING stima che gli europei spendono in media 130 EUR al mese in abbonamenti vari riguardanti l’uso di servizi e/o prodotti. Pertanto, per complessivi circa 350 miliardi di euro. Si stima che i ricavi delle società che operano con un modello di abbonamento siano cresciuti a
un tasso annuale composto (CAGR) del 18,1% negli ultimi 6 anni. Questo corrisponde a 5 volte più veloce rispetto alle vendite al dettaglio sia in Europa che negli Stati Uniti (3,1% CAGR nello stesso periodo. Ciò fa prevedere che per l’Economia delle Sottoscrizioni o degli Abbonamenti si preveda un incremento ancora maggiore per i prossimi anni. Naturalmente il trend non riguarda solamente l’intrattenimento: sottoscriviamo abbonamenti per il car sharing ad esempio, o per i servizi di ristorazione. E non riguarda neppure soltanto la generazione dei millennials, sebbene siano il pubblico più influente in termini di numeri.
Una ricerca che riguarda Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, Francia, Benelux e Italia, condotta da SlimPay che è una “fintech” francese specializzata nei pagamenti ricorrenti tramite addebito diretto, ha messo in luce un numero importante che riguarda la percentuale di italiani che ha sottoscritto un abbonamento: sono il 74%, con 2,2 abbonamenti a testa. La media europea è ancora più interessante: 85% di utenti. Alla luce di quanto abbiamo appena visto appare chiaro che stanno cambiando anche le modalità e le opportunità di business per molti settori, e che i numeri sono troppo importanti per restare indifferenti.
Ovviamente, la subscription economy ha cominciato ad andare forte sul mercato dei software, grazie alle enormi innovazioni portate dal sistema dei cloud. Il software è sempre meno qualcosa che si installa sul proprio computer e sempre più un servizio che viene erogato via Web. I privati o le aziende pagano una tariffa mensile o annuale, e il fornitore offre il servizio (e tutti i suoi aggiornamenti) in rete.
L’interesse maggiore che spinge l’utente ad “abbonarsi” è principalmente la possibilità di gestire in autonomia le modalità e le tempistiche di fruizione dei servizi. Ma non solo, a questa motivazione si aggiunge una vera spinta che potremmo definire “emotiva”, la cosiddetta “membership”, ovvero “quel modello che si basa su un sito di adesione dove le persone pagano in modo ricorrente e periodico per seguirne i contenuti, diventa per l’utente l’opportunità di sentirsi parte integrante dell’azienda”.
Altra leva particolarmente rilevante è data dalle modalità di offerta dei contenuti: “essi vengono sempre più spesso presentati in maniera personalizzata, ovvero in base alle preferenze dell’utente”. Questo automatismo piace a chi sceglie di accendere l’abbonamento, viene percepito come un servizio cucito su misura addosso a lui. In futuro la sfida più accattivante per le aziende che si occupano di produrre contenuti e servizi adeguati, è sfruttare la subscription economy per riuscire a vendere esperienze dove i beni vengono presentati in maniera personalizzata e personalizzabile.
Un altro elemento sostanziale che sottende a questa tipologia economica è dato dal meccanismo della fidelizzazione del cliente, che ne aumenta la soddisfazione e ne migliora l’esperienza, il ché molto spesso dà luogo a un legame duraturo, solido e sentito tra azienda e cliente. Stessa cosa se vendi dei corsi: un abbonamento che offra periodicamente chicche, informazioni esclusive e aggiornate, news, piuttosto di un unico insegnamento una tantum, farà di certo più gola ai tuoi clienti. L’innovazione, ovviamente, è un grande motore di crescita per l’economia degli “abbonamenti”. Non c’è dubbio che l’implementazione di tali servizi è stata facilitata dalla diffusione della digitalizzazione diffusa in tutti i contesti della società contemporanea.
Un effetto visibile, sotto gli occhi di tutti, è la sostituzione quasi inevitabile della ‘ownership’ da parte della ‘membership’, ossia l’accesso temporaneo a un bene o servizio. Dato questo orizzonte, le aziende orientate alla “membership economy” avranno un ruolo sempre più centrale. La rivoluzione della “membership economy” è un fenomeno piuttosto recente, anche se affonda le sue radici in tanti cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio. Non a caso, il primo a predire questo “shift” è stato Jeremy Rifkin in un saggio visionario del 2001 intitolato “The Age of Access”. C’è voluto più del previsto per realizzare quanto ipotizzato da Rifkin ma oggi i business più intelligenti e proattivi hanno già intrapreso la strada dell’evoluzione.
Citando William Gibson, “il futuro è già qui, solo che non è distribuito in maniera uniforme”. È stata necessaria una decade perché connessioni digitali, smartphone e cloud economico riuscissero a spianare la strada al modello più evoluto di “membership economy”. La velocità con cui le aziende riusciranno a compiere questo passaggio stabilirà la rilevanza delle stesse nella mente dei clienti. Clienti che, da parte loro, hanno già ben compreso la differenza tra il pensare in termini di proprietà top-down e il pensare (e agire) in condivisione, trasparenza e apertura.
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