di Mario Cataluddi
CIRCA QUINDICI MESI SONO TRASCORSI DALL’INIZIO DELLA CRISI CHE ORMAI TUTTI CONOSCIAMO CON IL NOME DI “PANDEMIA DA COVID-19”.
La potenza distruttiva del parassita non si manifesta unicamente in maniera diretta e scenografica a livello fisiologico, come dimostra l’elevato numero di vittime registrato sino ad oggi, ma anche in maniera trasversale e velata, a livelli ben più profondi dell’essere umano.
Le drastiche limitazioni della libertà personale operate da parte dei vari governi nel disperato tentativo di gestire l’emergenza sanitaria ed il clima d’instabilità e di paura globalmente diffuso, hanno contribuito all’incremento di alcuni disturbi psicologici e fenomeni sociali di rilievo, in settori anche non direttamente coinvolti con quello del temuto virus: ansie, fobie, depressioni, violenze, isolamento, comportamenti a richio, abusi e, non per ultime, dipendenze.
A soffrire di questa situazione sono anche i più piccoli, bambini e ragazzi, privati di ore di gioco e di socializzazione a scuola, nei parchi, dagli amici, cioè di esperienze essenziali per il loro corretto sviluppo cognitivo e psico-affettivo, nonchè per il soddisfacimento dei loro bisogni primari di appartenenza e di riconoscenza.
Ciò che allarma sempre più le famiglie in questo periodo, è in particolar modo l’incremento delle ore di permanenza dei propri figli davanti agli schermi.
La giornata scorre tra Social, TV e videogiochi, senza dimenticare la famosa didattica a distanza che va anch’essa ad alimentare il “cyber-contatore”.
I dati statistici sono ancora ad oggi abbastanza confusi, per non dire assenti, ma le tante testimonianze di genitori e professionisti del settore, offrono un quadro abbastanza chiaro sulle loro preoccupazioni in merito al rischio che tali comportamenti possano sfociare in vere e proprie dipendenze informatiche, meglio note come Cyber dipendenze.
A tal proposito è utile precisare che affinchè questo accada, sarebbe necessaria la concomitanza di molteplici fattori e presupposti.
Per intenderci, non basta il fatto che un bambino passi qualche ora davanti agli schermi e si rifiuti di spegnere la consolle al primo richiamo per considerarlo un soggetto “addicted”.
Sarebbe giusto quindi differenziare il semplice utilizzo dei supporti informatici dovuto a periodiche necessità, dai fenomeni patologici rivelatori di una sofferenza interiore e profonda, com’è il caso, ad esempio, dei noti “Hikikomori”.
Per coloro che ancora non ne fossero a conoscenza, si tratta di un fenomeno studiato principalmente in Giappone, che vede sempre più persone di ogni età ed estrazione sociale, isolarsi dal mondo esterno a favore di quello virtuale, rinchiudendosi durante lunghi periodi nelle loro camere, uscendo unicamente per soddisfare le loro esigenze fisiologiche vitali, utili ad intrattenere la loro esistenza parallela sulle piattaforme di giochi on-line.
Tentiamo dunque di identificare il concetto stesso di dipendenza.
Data la vastità e la complessità del settore è difficile poterne fornire una definizione precisa e unica. La gran parte dei professionisti del campo sono inclini a prendere in considerazione quella proposta dallo psichiatra americano Aviel Goodman secondo il quale essa consiste in «un processo per il quale un comportamento, mirato al soddisfacimento di un piacere e al sollievo di un malessere interno, è caratterizzato dai ripetuti fallimenti di controllo di tale comportamento e dalla persistenza dello stesso, malgrado le importanti conseguenze negative».
Da tale affermazione si evince che il soggetto è divenuto “addicted” quando quel comportamento che al principio era adito a placare un suo malessere interniore procurandogli del piacere, diventa poco alla volta compulsivo, assume il totale controllo su di lui, e lo riduce ad uno stato di schiavitù dal quale risulta in seguito difficile affrancarsi, diventando infine esso stesso causa di sofferenza.
Il soggetto “addicted” viene aspirato in tal modo in un vortice vizioso di autodistruzione che a mano a mano lo porta ad avere conseguenze negative oltre che sul piano sanitario, anche su quello affettivo, sociale, professionale, giuridico, economico e cosi via.
Non sarebbe sbagliato asserire che esistano tante forme di dipendenza quanti siano i soggetti implicati. Comprendere una data situazione domanda inevitabilmente una visione olistica della persona interessata, che tiene conto delle sue molteplici dimensioni: quella fisica, cognitiva, emotiva, sociale, relazionale, affettiva, culturale etc.
Pensando ai vari fenomeni di cyber-addiction, o semplicemente allo scoppiare del consumo dei prodotti informatici d’intrattenimento, la domanda che verrebbe da porsi, sarebbe allora: «Cosa spiegherebbe il successo negli ultimi anni da parte di tali supporti?».
Le risposte potrebbero trovarsi nelle loro molteplici peculiarità e in un mutamento antropologico in atto ormai da decenni. Se è vero che la pandemia ha avuto forse l’effetto perverso di portare alla moltiplicazione del tempo di consumo informatico, bisogna pur ammettere che tal fenomeno coinvolge le nostre attuali società già da molto tempo.
Sarebbe opportuno ricordare il compianto Pier Paolo Pasolini che nei suoi tanti saggi metteva in guardia le nuove generazioni riguardo la potenza distruttiva del consumismo quale fenomeno omologatore di massa.
In una società sempre più basata sul dogma dell’apparenza e del consumo, sui precetti del neoliberalismo capitalistico finanziario, l’individuo, sin dalla più giovane età, viene incanalato in un processo di alienazione da sé stesso e di livellamento agli standard del momento che lo porteranno ad oggettivizzarsi in una sorta di merce da scambiare sul mercato.
Questa estraneazione lo porterebbe ad essere involontariamente dipendente dalla società, dalla moda, dai giudizi e dalle critiche e meno cosciente di sé.
Tutto ormai obbedisce alle leggi del mercato e le relazioni umane non ne fanno eccezione.
I vari “Social” sono la vetrina aperta al mondo intero, o comunque ad una certa cerchia di persone. Le varie applicazioni offrono all’utente una larga gamma di filtri che lo aiutano ad apparire diversamente rendendo la sua immagine più coerente allo standard collettivo. Si postano foto della propria quotidianità, della propria vita privata o di proprie esperienze. Si può fingere di avere, ostentare quel che si riesce magari solo a desiderare oppure enfatizzare quel che si possiede, al fine di ottenere quella riconoscenza tanto agognata e non forse ottenuta nella vita reale. Ci sono poi i siti dove s’incontra la domanda e l’offerta di single in cerca di partners. Ormai è possibile sfogliare i vari profili come un catalogo di giocattoli di Natale. Vi è la possibilità di apporre filtri di ricerca selezionando le preferenze fisiche o professionali della persona desiderata, i centri d’interesse e quant’altro. Si può optare per la relazione effimera, o quella più duratura, per l’incontro di una notte o per la speranza della storia d’amore.
I videogiochi permettono invece di personificare nell’avatar quell’ideale di sé che non riesce ad esprimersi nella vita reale e di gestire le frustrazioni derivanti. Essi danno la possibilità d’indossare i panni dell’eroe che riesce a compiere gesta spettacolari, a cambiare gli eventi, a salvare vite umane, oppure ad essere un gran giocatore di calcio, di tennis, di basket, raggiungere grossi punteggi ed ottenere riconoscenza e soddisfazione personale.
Si potrebbe presumere che il mondo virtuale sia una capsula di salvataggio che porti il soggetto lontano da una raltà sempre meno accettabile ai suoi occhi (Vedasi film Ready Player One, di Steven Spielberg).
Tal postulato porterebbe a pensare che la sovrastruttura che stia disgregando poco alla volta il tessuto sociale delle nuove generazioni, e appiattendo ogni forma di personalità e univocità, porti però in suo grembo il seme della rivoluzione.
Non sarebbe forse il fenomeno “Hikikomori” una forma di rivolta contro una società che divulghi valori e ideali sempre più lontani da quelli insiti in ogni individuo sin dalla nascita; una società nella quale non ci si senta accettati e della quale non si voglia far parte?
La sfida delle prossime generazioni sarà allora quella di limitare la fruizione dei mezzi informatici da parte dell’individuo unicamente all’incontestabile utilità pratica del momento e di riconnetterlo invece alla realtà; non certo a quella distopica caratterizzata da una società priva di limiti e di linee guida etiche e morali, bensì ad una più giusta e umana, creata da individui non più alienati e dipendenti, bensì consci della loro univocità, attori ed autori responsabili del nuovo mondo unito nello spirito di fratellanza.
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