L’Italia ha vinto con ‘È stata la mano di Dio’, il film autobiografico di Paolo Sorrentino, che si è aggiudicato il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria e il Premio Marcello Mastroianni, destinato a un giovane attore emergente, con il protagonista Filippo Scotti (“sono onorato e emozionato come quando Paolo mi ha scelto per il film”, ha detto con le lacrime agli occhi). “Dovete avere pazienza perché sono molto emozionato. Un film non facile”, ha detto Sorrentino che tra i ringraziamenti ha inserito anche Maradona. “Ogni tanto qualcuno antipatico mi dice: ‘ma perché tu fai un altro film con Toni Servillo?’ e io ora posso rispondere: ‘guardate dove sono arrivato facendo i film con Servillo'”, ha detto Sorrentino, commosso fino alle lacrime.
E’ stata la mano di Dio, il film. La prima circostanza è un dato di fatto e la seconda una parafrasi, ma insieme sono una similitudine (non coincidenza, no, forse è stata la mano di Dio…) che fanno capire meglio il bellissimo film del regista napoletano e tutta la sua filmografia.
Perché un po’ come il capolavoro assoluto felliniano, È stata la mano di Dio è un punto e a capo, ma anche un consuntivo personalissimo e autobiografico che non fa sconti ad un dolore così interiore da non riuscire a raccontarlo.
Così come 8½ era il tentativo di Federico Fellini di riassumere la sua vita, tornare nel suo posto delle fragole e fare pace con il suo passato e i suoi errori, anche È stata la mano di Dio è un nuovo inizio per Sorrentino, ma prende inoltre la forma di una confessione estrema e lacerante, raccontando la sua vita e il suo passato intriso di felicità e dolore.
E per quanto la similitudine tra “9½” e 8½ possa fare colore, l’assonanza è ancora più impressionante nel momento in cui alcune scene iniziali del film sembra rivedere Giulietta degli spiriti o proprio quell’altro film lì.
Questo senza contare che, scendendo nel merito, l’opera portata al Lido nel 2021 è un Sorrentino che smette di fare Sorrentino, si libera dalle oppressioni del suo stesso stile e trova una nuova fluidità, una nuova modalità di racconto, un nuovo sguardo più fresco ma non per questo meno affascinante.
Come se ne La grande bellezza (…La dolce vita?)si possa scorgere la volontà di mostrare tutto quello che finora quel cinema era stato: simmetrico, simbolico, pieno di carrellate improvvise all’indietro, movimenti di macchina identificativi di un percorso e di un artista, insomma, una summa per guardarsi dietro un’ultima volta e voltare pagina.
Non che È stata la mano di Dio non sia un film profondamente sorrentiniano: c’è sempre l’autore partenopeo dietro quelle due o tre (magnifiche) sequenze oniriche che aprono e chiudono il film, c’è sempre la sua mano che porta veloce la camera verso dietro e poi fissa i volti scarnificati. Addirittura, in alcuni passaggi sembra di sentire un sonoro che – di certo volutamente – sembra ricalcare L’uomo in più, L’amico di famiglia e sempre quella Grande Bellezza. Certo, i dialoghi sono forse meno precisi e sottili, meno fitti: ma una volta fatta pace con il proprio passato, se ne può anche ridere gioiosamente, si può sorridere e scherzare su qualcosa di caro e prezioso che però non c’è più, strappato via da un destino immanente che rimane beffardo ma perché no, divertente.
Ed è infatti una bellissima sorpresa ridere in tutta la prima parte del film, perché è impossibile rimanere freddi difronte all’alchimia di due attori in stato di grazia come Teresa Saponaro e Tony Servillo: lui sempre così drammatico, questa volta invece passa sul comico e solo quando sparisce, nel secondo tempo, si fa tutto più cupo. Guardare indietro per andare avanti.
Certo non basterà a capire il cinema di Paolo Sorrentino, ma per entrare nel suo complesso e sfaccettato mondo, basta guardare l’incipit de L’amico di famiglia, uno dei suoi capolavori più sottovalutati. E osservare con attenzione la sequenza nella quale vediamo, entrando immediatamente in medias res, una suora seppellita nella sabbia dalla quale spunta solo la sua testa. Si può sentirla appena bisbigliare, inquadrata al centro dello schermo a formare un’unica, vivida immagine pittorica di inquietante, misteriosa e inafferrabile bellezza, senza afferrare pienamente il senso di ciò che dice. E quasi subito la macchina da presa le vola intorno e si ferma su alcuni individui. Partirà dopo la “vera” narrazione, e capiremo (o meglio, non capiremo) che ciò che abbiamo visto finora c’entra poco e niente con la storia di Geremia Longobardi.
Il mondo di Sorrentino è così: procede per singulti emozionali e spinte visive, in maniera assolutamente a-narrativa, perché non segue un percorso strettamente logico. Ciò che l’occhio del regista inquadra, quello che viene messo al centro dell’immagine, non è (sempre) ciò che serve a comprendere la storia, eppure è certamente un elemento utile a dare un mood all’opera nel suo complesso, a creare un’atmosfera, a far percepire allo spettatore l’emozione che Sorrentino vuole trasmettere. O ancora meglio, un mondo interiore. Perché questo mondo è un universo introflesso.
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