Risulta sempre più adeguato occuparsi di Mezzogiorno partendo dai caratteri della sua struttura produttiva. Risulta evidente sempre più, in un contesto di trasformazioni repentine e spesso imprevedibili, lo sforzo che si dovrebbe fare è quello di mettere in collegamento l’analisi della complessità con politiche dettate da una volontà di cambiamento che affondi le radici nella conoscenza delle forze disponibili e delle vocazioni locali. Nella storia economica, e non solo, d’Italia le differenze territoriali e la capacità di reazione dei singoli contesti hanno segnato inevitabilmente i percorsi stessi dello sviluppo: dall’affermazione del triangolo industriale durante il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta al “dinamismo privato” della “Terza Italia”.
Parlando di Mezzogiorno, invece, ci si è limitati a riproporre la tradizionale immagine di arretratezza, nonostante le trasformazioni intervenute, con un’accelerazione negli ultimi decenni. Bisogna ricordare che “il modello italiano di capitalismo, accanto all’elevata regolazione formale di tipo prevalentemente statale, tipica per esempio del mercato del lavoro, manifesta a livello locale processi negoziali impliciti, che sono riusciti in più occasioni a colmare le carenze istituzionali, attraverso esperienze efficaci nel contingente, ma, a causa della loro natura reattiva, per lo più instabili”. Del resto gli stereotipi che enfatizzano alcuni aspetti eclatanti di una realtà, rendendoli inalterabili nel tempo, accompagnano da sempre la “questione meridionale”. Per il Mezzogiorno è semplice ricordarne alcuni: il ritardo economico, l’arretratezza, lo spreco di risorse pubbliche a fronte di un massiccio intervento dello stato centrale. È vero: se si considera il profilo del Mezzogiorno così come emerge dai dati macroeconomici standard, come per esempio il PIL o il valore aggiunto, lo scarto con il resto del Paese rimane elevato e soprattutto sembra essersi aggravato nell’ultimo periodo. Il punto non è quello di cercare prove empiriche che smentiscano la gravità e il radicamento di queste condizioni, ma piuttosto domandarsi quanto sia utile oggi continuare a leggere la “questione meridionale” in questi termini, cioè praticamente gli stessi del Dopoguerra, ignorando le massicce trasformazioni intercorse e gli effetti delle politiche pubbliche.
Qualche esempio. L’intervento dello Stato nel Sud d’Italia è stato prevalentemente fatto coincidere nel discorso pubblico con l’intervento straordinario. In realtà, questo tipo di investimenti nelle regioni meridionali, se simbolicamente è stato marcato dall’istituzione e il mantenimento prolungato della Cassa per il Mezzogiorno, dal punto di vista sostanziale non ha mai superato l’1% del prodotto interno lordo. È semmai l’intervento ordinario che ha avuto effetti pervasivi sui contesti locali, prevalentemente attraverso i trasferimenti agli enti locali, alle famiglie e agli attori economici. Questi non hanno prodotto però ovunque gli stessi risultati. È possibile, per semplificare l’analisi, identificare due momenti nella storia italiana degli ultimi decenni, in grado di spiegare le dinamiche di sviluppo svolte nel Mezzogiorno, delimitati dai primi anni Novanta che rappresentano un vero e proprio spartiacque.
Fino all’ultimo decennio del Novecento, la rappresentazione più diffusa del Sud d’Italia è stata quella di un’area omogenea, povera e arretrata, delle cui condizioni di sottosviluppo lo stato italiano si era fatto carico, a partire dal secondo Dopoguerra. Questo intervento pubblico ha però prodotto degli effetti “inattesi e perversi, secondo un circolo vizioso che vedeva la redistribuzione di risorse dal centro alla periferia gestita da una classe politica meridionale debole e poco legittimata”. Orientata alla conquista e al mantenimento di un consenso “frammentato”, non basato sull’identità politica, né su una valutazione legata alla realizzazione di programmi elettorali, tale classe politica si muoveva in un’ottica “particolaristica”, dettata da un rapporto di scambio tra consenso e favori. “Questo meccanismo, laddove prevalente, ha condizionato il profilo dei territori, penalizzando l’attuazione di politiche di qualificazione dell’ambiente locale, favorendo un’imprenditorialità di tipo politico e utilizzando l’impiego pubblico o parapubblico per rispondere a una domanda di lavoro garantito e poco qualificato”.
In questi sistemi locali, in cui la ricchezza delle famiglie veniva a dipendere in gran parte dall’arrivo sul territorio di risorse pubbliche redistribuite sotto varie forme dal centro, si è verificata nel corso degli ultimi decenni una crescita dei redditi e dei consumi. Questo tipo di base economica, però, ha reso i territori dipendenti dal processo di redistribuzione statuale e prevalentemente a caratterizzazione politico-partitica, che ha raggiunto il suo apice nel corso degli anni Ottanta. Negli anni Novanta, eventi chiave della “prima repubblica”, come lo sconvolgimento del sistema partitico tradizionale, i processi di Tangentopoli, la firma del trattato di Maastricht, la politica del rigore dei governi tecnici, hanno prodotto effetti specifici nelle regioni meridionali. In particolare, la conclusione definitiva dell’Intervento straordinario e il forte ridimensionamento della spesa pubblica hanno colpito duramente il Sud che dipendeva di più dalla redistribuzione del centro. Gli effetti immediati di tutto ciò, ed in particolare tra il 1991 e il 1996 è l’immediato aumento del divario con il Centro-Nord, con conseguente balzo all’insù del tasso di disoccupazione che arriva a superare il 20%, con punte in alcune regioni, come la Calabria, che sfiorano addirittura il 30.
Sul piano delle politiche economiche, quella europea dei fondi strutturali diviene il principale sostegno finanziario agli interventi nelle regioni meridionali, sebbene il loro utilizzo sia vincolato a criteri di spesa profondamente diversi dai precedenti: “lavorare per programmi, rispettare le scadenze, individuare obiettivi chiari e tempi certi, valutare e monitorare in corso d’opera”. Questo passaggio trova i nuovi interlocutori, regioni ed enti locali, praticamente impreparati con conseguente inevitabile fallimento delle attuazioni di tutti i Quadri Comunitari di Sostegno proposti fino ad oggi. Si fa spazio così una nuova immagine del Mezzogiorno, in apparente contraddizione con quella arretrata e inefficiente descritta dall’ipotesi degli effetti perversi prima ricordata e dalla gran parte della letteratura sociopolitica sul Sud.
Se distinguiamo le attività orientate al mercato (come la manifattura, i servizi produttivi alle imprese, il turismo) da quelle legate alla presenza di popolazione e alla redistribuzione pubblica (i servizi tradizionali e i servizi sociali), è possibile classificare i sistemi locali in base al loro grado di autonomia nel produrre ricchezza a livello locale. In altre parole, le aree in cui la ricchezza delle famiglie dipende in primo luogo dalla presenza di impiego legato al settore pubblico e dai trasferimenti monetari provenienti dal centro, risulteranno più dipendenti dall’andamento della spesa pubblica (sistemi locali dipendenti). Viceversa, i territori più dinamici in termini di occupazione e produzione di reddito nei settori privati legati alla concorrenza di mercato, saranno più autonomi dai trasferimenti del centro, essendo maggiormente legati alla capacità degli attori locali di mantenere in buona salute le attività imprenditoriali prevalenti (sistemi locali autonomi). In rapporto ad un’erogazione di servizi pubblici indispensabili alla popolazione, nei sistemi meridionali si è generalmente fatto un uso dell’impiego pubblico finalizzato soltanto alla creazione di posti di lavoro e tendenzialmente sganciato dalla qualità del servizio erogato. Conseguentemente la dipendenza della base occupazionale dalle sole risorse pubbliche diventa inoltre ancora più problematica in caso di contrazione della spesa pubblica.Tuttavia, alcuni esempi mostrano come nonostante le ingenti somme legate alle politiche europee, lo Stato non abbia investito con convinzione nelle regioni meridionali. Continuano così a prevalere gli aspetti di continuità rispetto alle politiche del passato.
“In generale, dal rapporto proporzionale tra spesa pubblica procapite e PIL procapite si osserva lo scarso effetto redistributivo dell’intervento pubblico. In altre parole, la stato spende di più nelle aree che producono maggiore ricchezza. Se inoltre facciamo riferimento alle componenti della spesa pubblica, distinguendo tra trasferimenti ordinari e spesa in conto capitale – diretta alla produzione di nuovi beni e servizi – notiamo come a prevalere nel Mezzogiorno sia ancora il primo tipo. Questa sproporzione aumenta nel caso in cui si consideri il settore pubblico allargato e cioè gli investimenti compiuti dalle società come Poste, Ferrovie dello Stato ecc. Esse infatti, legate a una logica aziendale di aumento dei profitti e libere da vincoli di tipo geografico, tendono a indirizzare i propri interventi nelle aree maggiormente remunerative, con il risultato di penalizzare le regioni meno dotate di infrastrutture di base”. Un altro importante fattore emerge guardando al tipo di istituzione pubblica erogatrice della spesa in conto capitale, che ha quindi voce in capitolo rispetto ai progetti su cui investire. “Mentre gli enti locali sono protagonisti nel Centro-Nord, al Sud l’attore principale è ancora lo Stato, più distante dai singoli territori e meno a conoscenza delle dinamiche locali”.
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