di Luca Bianchi*
La riapertura del dossier sull’autonomia differenziata di cui si è occupato ieri questo giornale coincide con le settimane che precedono l’apertura delle scuole. Sembrerebbero due temi molti distanti tra loro eppure, se andiamo a rileggere le proposte di autonomia formulate dalle regioni del triangolo padano (Emilia Romagna, Veneto e Lombardia) nel 2019, vediamo che, pur con contenuti piuttosto diversi tra regioni, la materia dell’istruzione era tra quelle oggetto di richiesta di regionalizzazione. Essa rappresentava peraltro la materia più rilevante dal punto di vista dell’impatto finanziario e quella potenzialmente più devastante sulla stessa unità nazionale.
Una prospettiva che, come ricordava ieri Gianfranco Viesti, era andata molto vicino a realizzarsi con il governo giallo verde ma che fu bloccata sia da una forte campagna di mobilitazione civica sia da puntuali osservazioni di importanti organismi tecnici nazionali, quali il Dipartimento Affari legislativi della presidenza del Consiglio (Dagl) e l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb). Proprio con la proposta di regionalizzazione della scuola (in particolare nella bozza presentata dal Veneto) si è corso il rischio di avviare un processo separatista che avrebbe avuto conseguenze pesantissime sulle prospettive dei cittadini, ampliando le distanze territoriali. Programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e meccanismi di finanziamento differenziati rappresentavano il fulcro della propaganda autonomista lombardo-veneta.
È evidente dunque l’enormità della posta in gioco: delegare a livello regionale un comparto fondamentale dell’impiego pubblico, che occupa oggi sul territorio nazionale circa un milione di addetti, tra personale docente e Ata. Secondo il costituzionalista Massimo Villone la succulenta polpetta avvelenata del federalismo dell’istruzione vale decine di migliaia di docenti e 8 o 10 miliardi in più per i due governatori regionali più nettamente autonomisti, Zaia e Fontana. Allo stesso tempo la regionalizzazione dei dipendenti scolastici rappresentava anche il cavallo di troia per lo smantellamento della stessa contrattazione nazionale aprendo la strada ad una differenziazione dei salari degli insegnanti in base alla ricchezza del territorio di riferimento. Una riproposizione di quelle gabbie salariali nel pubblico impiego auspicata non soltanto da ambienti leghisti ma con appeal anche in molti ambienti della sinistra del Nord.
Ora fortunatamente la riapertura del dossier da parte del governo Draghi sembra introdurre dei paletti a monte del processo di attuazione dell’art.116 della Costituzione che sembrano scongiurare l’ipotesi di una riproposizione sic et simpliciter di tali proposte. La Commissione nominata dalla ministra Gelmini vuole evitare la nascita di nuove Regioni speciali impedendo che possano essere richieste competenze su tutte le materie teoricamente regionalizzabili, come accadeva nelle precedenti proposte. Va ora con chiarezza evitato il rischio che l’affidamento alle regioni di servizi a forte contenuto redistributivo, come l’istruzione, crei disparità di trattamento tra regioni, difficoltà nella libera circolazione delle persone tra territori regionali, limitazione dell’esercizio del diritto al lavoro in qualsiasi parte del territorio nazionale, l’indebolimento dei diritti di cittadinanza. In questo senso ci rassicura anche la presenza del Ministro Patrizio Bianchi al Ministero dell’istruzione che fu tra gli autori della proposta di attuazione del 116 dell’Emilia Romagna che proprio sul tema dell’istruzione si differenziava profondamente da quelle delle altre due regioni limitando l’ambito della regionalizzazione alla sola formazione tecnica e professionale, più connessa al contesto produttivo locale.
L’esperienza di quest’anno e mezzo di pandemia ha mostrato inoltre con chiarezza la debolezza delle regioni, anche di quelle che sino ad oggi si consideravano più virtuose, e ha rimesso al centro l’esigenza di un rafforzamento delle politiche nazionali. Tema che appare ancora più rilevante con riferimento al nostro sistema di istruzione che, come testimoniato dalle ultime indagini Invalsi, ha visto ampliare i divari sia all’interno dei territori, in base allo status familiare, sia tra territori. Con l’aggravante nelle regioni meridionali di chiusure più prolungate delle scuole che hanno finito per enfatizzare gli effetti negativi della didattica a distanza soprattutto per le famiglie più fragili. Si pensi che in Campania le giornate di didattica in presenza nelle scuole medie sono state appena il 40%, in Calabria il 70%, contro il 100% di regioni come il Lazio, la Lombardia e l’Emilia Romagna a conferma di un deficit di offerta sanitaria e di infrastrutture scolastiche che rendono inapplicato l’eguale diritto costituzionale all’istruzione.
Sulla capacità di ridurre queste disuguaglianze, è scritto a chiare lettere nel Piano Next Generation europeo e nella sua declinazione italiana (Pnrr), si giocano molte delle possibilità di ripresa del Paese. Piano che infatti destina una quota rilevante di risorse proprio per rafforzare l’offerta formativa, dagli asili nido al tempo pieno nella scuola primaria, alle politiche di contrasto all’abbandono scolastico, nelle aree più fragili, con l’obiettivo di ridurre i divari di cittadinanza.
Se dunque il governo riterrà anche se è difficile pensare che possa essere considerata una priorità nell’attuale congiuntura economica e sociale – riaprire il dossier dell’autonomia differenziata, svincolandolo da un’ordinata attuazione del federalismo fiscale, la condizione imprescindibile è che il sistema formativo deve rimanere nazionale. Il governatore Zaia dovrà farsene una ragione.
*Direttore della SVIMEZ
(Fonte: Il Mattino)
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