di Vincenzo Domenico Panella
RACCONTO
Estate ’45.
Napoli è controllata dagli americani, ma i tedeschi occupano ancora quartieri dai quali è difficile stanarli.
San Carlo all’Arena è uno di essi. La zona tra Piazza Garibaldi, il Tribunale, via Rossarol, via Foria e la Prefettura è presidiata da americani, ma i tedeschi hanno ancora qualche nascondiglio dai quali oppongono sacche di resistenza alle truppe di liberazione.
Lo sbarco a Napoli dei “ ‘mericani ” ha fatto rinascere la voglia di vivere della gente dei vicoli e delle piazze.
Via S. Antonio Abate, un’arteria stretta e lunga, piena di negozi e bancarelle dove ogni mattina si ripete il rituale del mercato nel quale, anche in tempo di fame e carestia, puoi trovare ogni sorta di cosa lungo la strada.
Strada che è intersecata da un dedalo di viuzze strette, lunghe e senza sole: i vicoli.
Tra questi “vico dei Femmenielli!. Così chiamato perché fuori all’uscio dei bassi stazionavano e stazionano figure femminili che poco hanno di “femmena” se non gonne, corpetti, trucco pesante e provocante e “zizze” finte procurate con scarse imbottiture coperte dai corpetti.
“ E femmenielli”. Transessuali che, per necessità e per pochi spiccioli, vendevano il proprio corpo accanto alle femmine vere, alle prostitute.
Prima con i tedeschi, dai quali erano trattati peggio degli animali.
Per loro, che facevano spregio delle razze se non ariane, i “femmenielli” formavano la parte putrida della razza umana. Ma le depravazioni, ‘e sfizzije, erano presenti pure tra le forze armate della razza tanto cara a Hitler e così, anche se non proprio di buon grado, “ ‘e femmenielli”, erano costretti a soddisfare le voglie dei soldati tedeschi.
Ora con gli americani le cose erano diverse. Avevano più libertà, più autonomia, venivano trattati come esseri umani, anche se diversi, ma sempre con rispetto.
La loro vita era ripresa come prima e il vicolo si era di nuovo riempito dei colori sgargianti delle gonne, corpetti, parrucche e dei richiami sensuali e sessuali che “i femmenielli” sanno mettere in mostra a volta con più enfasi delle loro colleghe prostitute.
Tra questi vicoli volteggiava, è il caso di dire, per allegria, spensieratezza e bellezza Lariulà.
Aveva poco più di 11 anni Lariulà. Riccioli lunghi e biondi sulla fronte, un fisico da bambina esile, ma ben tenuto; gambe affusolate che la rendevano ben più alta per una della sua età. Un vestitino dai colori sgargianti ricamato di pezze provenienti dalle gonne e corpetti dei femmenielli che le facevano quasi da tutori tutti insieme.
Non si sa da dove provenisse e di chi fosse figlia. E’ apparsa un giorno di qualche anno prima, nuda in mezzo alla strada, piangeva a dirotto. Gli americani sfrecciavano con le loro jeep avanti e indietro e lei lì in mezzo correva il rischio di essere investita.
Nanà, uno dei femmenielli, la prese di peso dalla strada e portò nel vicolo dentro al suo “basso”. La lavò, la nutrì, la vestì con qualche suo corpetto e la presentò alle sue amiche.
Lulù dicette – “ma tu sì pazza, comme faje a fa ‘o mestieree att’occupà ‘e sta’ piccerella. Nun sapimmo manco chi è, nun tene nu’ nomme”.
Letizia rispunnette – “ ma è accussì piccerella, accussì bellella, me pare na’ bambulella”.
Pallina continuò – “ ma comm’ ‘a chiammammo e chi sa’ tene né pecché io nun pozzo; ‘o vascio mio è troppo friddo, ummero e piccerillo”.
Prima che altre amiche si intromettevano nel discorso Nanà dicette: -”la tengo io, l’ho trovata io ‘mmiezo a via e m’ ‘a piglie io ‘sta responsabilità. Resta cu’ mmé, p’ ‘o nomme po’ ce pensammo.”
Frufrù rispunnette – “ ma comme faje cu’ sta’ crijatura dint’ ‘o vascio, cu’ ‘o mestiere che facimmo nunn’è giusto a tené n’anema e Ddio cu’ nuje.”
Nanà rispose che avrebbe sistemato il basso in modo da creare un altro ambiente dove ‘a crijatura puteva stà e se steva cchiù accuorto al mestiere.
La radio in quel momento dava la famosa canzone di Bovio “Lariulì Lariulà” e, improvvisamente ‘a crijatura incominciò a ripetere le strofe della canzone con sintonia e armonia – “ …lariulì lariulà l’ammore s’è addurmute e nun se vole cchiù scetà…”.
Nanà e le amiche si guardarono meravigliate.
– ” forse è figlia ‘a nu’ cantante” – fece Pallina.
– “ po’ esse ca’ i suoi erano artisti di tabarin “ – disse Frufrù.
– “ po’ esse sulo che l’ha ‘ntise e lo ripete” – fece Letizia.
– “ Può essere tutto…” – zittì le amiche Nanà e, dopo aver dato da mangiare alla bambina, la mise a letto a dormire.
Passava il tempo, ‘a piccerella si era abituata appieno a quell’ambiente e al modo di vivere di quei “femmenielli”, anzi era diventata la loro mascotte e ogni qual volta serviva qualcosa ognuno la chiamava col nome che le avevano imposto da quella sera che aveva accennato “lariulì lariulà”.
Era la beniamina del vicolo e di tutta la strada alla quale si intersecava un dedalo di viuzze.
Le colleghe dei femmenielli, le prostitute, avevano anche loro, così per dire, adottato quell’esserino minuto che correva volteggiando per la via ripetendo sempre le strofe di quella canzone sentita tanto tempo fa.
A undici anni quasi non capiva ancora tutto quel via vai di uomini tra quei vicoli, o che essi erano in divisa o in abiti normali.
Si era molto spaventata dei rumori della guerra, anzi ne era addirittura sconvolta e quando le bombe fischiavano in cielo prima di portare morte e distruzione, si stringeva tra le braccia della sua Nanà e si addormentava tra tante facce sconosciute in quelle grotte che dovevano servire come riparo dalla distruzione.
La sua mente ne rimase sconvolta, come quelle di tutti i bambini che avevano assistito inermi allo sconvolgimento totale, alla perdita delle mamme e dei papà, dei giochi e della spensieratezza, dei colori del celo e della loro infanzia.
Ma tutto passa, tutto diventa inutile quando già è successo e così ci si ritrova in quei vicoli martoriati, in quei bassi seppelliti e in quelle macerie puzzolenti senza avere più affianco il volto di Pallina e Letizia che erano rimaste sepolte in una di quelle grotte che doveva servire come riparo.
Aveva fatto abitudine anche a quei militari rudi che entravano e uscivano dai bassi. Aveva fatto l’abitudine a tutto, ma non ancora ai colpi di pistola che ogni tanto ancora si sentivano fischiare per i vicoli.
Aveva paura di quei sibili e spesso si rifugiava tra le braccia di Nanà che la stringeva a sé e le cantava la sua canzone preferita “…lariulì lariulà l’ammore s’è addurmute e nun se vole cchiù scetà…” e così si addormentava tra le sue braccia.
La mancanza di Pallina e Letizia si faceva sentire e Lariulà, quando Nanà era impegnata, faceva compagnia a Lulù o a Frufrù, oppure sbrigava qualche faccenda.
Così pure quel giorno che “ ‘e mericani ” avevano scoperto ancora un covo dove pochi tedeschi tentavano ancora qualche resistenza prima di arrendersi definitivamente.
Quella sacca armata dietro le mura oltraggiate della chiesa di S. Antonio Abate opponeva una resistenza forzata, senza capire oramai che erano persi e la meglio era quella di arrendersi.
Ma “prima di arrendersi morire” dicevano i tedeschi e così la loro resistenza ebbe poca vita come loro; quattro ragazzi che avevano avuto inculcato il mito della “razza superiore” e così, incuranti della loro giovine vita, si lasciarono morire anziché arrendersi.
Dopo quel crepitio di colpi Nanà aspettava che Lariulà si ritirasse al suo basso, ma la ragazzina non tornava.
Oddio! Uno strano presentimento incominciava a farsi largo nella sua mente e un brivido di freddo glaciale incominciava a serpeggiare lungo la sua schiena.
Corse prima da Lulù, poi da Frufrù, poi dalle ragazze compagne di sventura, poi dai negozianti, poi…la vide…li al centro del vicolo.
Distesa a terra come se dormisse. Una posa naturale per essere innaturale. Supina, le gambe distese ma con le ginocchia ripiegate un po’ verso l’interno; le braccia all’indietro, come se dormisse…come se dormisse…come se dormisse…NOOOOOO !
Il grido di Nanà scosse tutta quella parte di quartiere dove vivevano. Corse, le si piegò vicino, prese quel corpicino esile in braccio, la strattonò, la chiamò mentre un filo si sangue rosso come solo il sangue innocente sa essere, scorreva dal corpetto a fiori con il quale Letizia le aveva cucito una vestina adatta a lei.
Piangeva Nanà. Piangeva mentre intorno a lei accorrevano le sue amiche Lulù, Frufrù, le ragazze e tanta di quella gente che non sai dove erano nascoste e che sa sbucare fuori quando vorresti essere da sola a piangere tutto il mondo.
Le sembrò anche di vedere Pallina e Letizia tra quelle facce piangenti e allora gridò: – Perché ve la siete presa, doveva stare con me, era il mio sole, la mia vita.
La gente, le ragazze man mano si allontanavano e lì su quei basoli sporchi di polvere e sangue restava Lulù, Frufrù e Nanà che, come in una nenia ripetevano, “…ahh lariulà l’ammore s’è addurmute e nun se vole cchiù scetà…”
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