È oramai da un decennio che si è evidenziato e consolidato l’andamento negativo della spesa pubblica in conto capitale del Mezzogiorno.
Andamento che ha portato il livello pro capite di tale spesa ad assumere un valore troppo significativamente inferiore a quello del Centro-Nord. Così come la quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale del Paese, calcolata dal DPS al netto delle partecipazioni azionarie e delle concessioni di crediti, è scesa di oltre il 60% nell’ultimo decennio. Non si arresta così la riduzione della quota di spesa localizzata nel Mezzogiorno, manifestatasi con continuità dopo il valore massimo registrato nel lontano 2001 quando fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese.
Oramai è stato raggiunto il livello di guardia, livello al quale non si può più parlare di politica e risorse aggiuntive per il Mezzogiorno: non vi è da oltre un decennio nessuna traccia di aggiuntività né di interventi per lo sviluppo nel momento in cui tali risorse – comprese quelle comunitarie – servono interamente a coprire la spesa ordinaria in interventi di “normale amministrazione”, cioè per normali funzioni di gestione o per usare una terminologia cara alla nostra costituzione all’articolo 119, anche se con un uso improprio delle stesse: “funzioni normali”. Ha inciso sulla riduzione della quota di spesa effettuata nel Mezzogiorno la decisione di ridimensionare i trasferimenti di capitale per interventi agevolativi a favore delle imprese, operazione che avrebbe dovuto accompagnarsi però ad un maggiore impegno sul fronte degli investimenti in infrastrutture.
È accaduto invece che la quota dei trasferimenti si è ridotta negli ultimi 15 anni dal 44% circa del 2004 ad uno striminzito 26% circa del 2018; mente la quota relativa alle spese d’investimento si è addirittura assottigliata considerevolmente, raggiungendo nel 2019 la quota del 23%. Questo andamento, tenuto conto delle maggiori capacità che si richiedono per la realizzazione di infrastrutture rispetto alla concessione di incentivi, è sinonimo di difficoltà più dal lato della spesa che dal lato delle risorse. Tanto per chiarire con evidenza cosa si vuole dire con investimenti si riporta le “attività” svolte dalla Imprese Pubbliche nazionali, delle quali fanno parte Ferrovie dello Stato, ENEL, ENI, POSTE, in generale le aziende ex IRI, esse hanno realizzato nel Mezzogiorno dal 2008 al 2019 una spesa in conto capitale pari soltanto al 11% del totale nazionale. Un vero e proprio schiaffo a tutte le popolazioni del Mezzogiorno d’Italia, un affronto che sa tanto di beffa.
La prima conseguenza di tanto disinteresse da parte dello Stato italiano nei confronti del Mezzogiorno, che pure è parte essenziale del suo territorio, è stata l’ulteriore diminuzione del PIL per abitante, indicatore che viene utilizzato come misura del livello di sviluppo di un’area: il risultato è stato che il PIL nel Mezzogiorno nel 2019 è stato pari a 15.971 euro, a fronte dei 30.681 del Centro-Nord, in termini relativi il valore del reddito pro capite del Mezzogiorno equivale a circa la metà di quello del resto d’Italia. Una condizione di tale squilibrio non si registra in nessun altro territorio europeo. Tuttavia se si analizza il divario tra le aree non in termini di prodotto pro capite, ma di produttività del lavoro, che misura l’efficienza produttiva ed è strettamente legato all’intensità del processo di accumulazione di capitale fisico ed umano, si nota che il gap è minore. Il divario nel prodotto pro capite è risultato nel 2017 pari all’83,7% a prezzi correnti, all’82,8% a prezzi 2010, con una riduzione in quest’ultimo caso di 0,7 punti percentuali dal 2010. Le differenze tra l’indice del PIL pro capite e quello del PIL per unità di lavoro è stata pari, nel 2017, a circa 25 punti percentuali a favore della produttività , mostrando come le differenze del prodotto per occupato siano sensibilmente inferiori alle differenze nel prodotto per abitante. Tutto questo, ad ogni modo non modifica il significato di fondo. Il Mezzogiorno, pur partecipando alla diminuzione della diseguaglianza dell’intero Paese, ha mostrato nell’ultimo decennio un preoccupante ed inesorabile aumento delle diseguaglianze interne, segnalando come il processo di convergenza influenzi le diverse aree con differenti intensità. Tra le regioni del Centro-Nord continua, invece, il processo di riduzione dei divari regionali, in particolare con una convergenza delle regioni del Centro verso quelle del Nord. I processi di convergenza in termini di tasso lordo di occupazione restano sostanzialmente immutati da oltre un decennio per quanto riguarda invece il Mezzogiorno: le differenze rimangono costanti a livello nazionale, mentre mostrano un aumento rilevante tra le regioni del SUD.
Quindi, mentre continua, pur se molto lentamente, il processo di convergenza, si ampliano le differenze nel tessuto produttivo delle regioni meridionali. Di fatti la caduta dell’occupazione calcolata nell’ultimo decennio, si è formata per il 60% del totale nazionale nel Mezzogiorno; un risultato grave se confrontato con una densità dell’occupazione nel Mezzogiorno particolarmente bassa: il tasso di occupazione (44,2%) è pari a due terzi di quello del Centro-Nord (64,8%), in particolare il calo dell’occupazione si è concentrato nel settore industriale in senso stretto, – 6,6 % nel Mezzogiorno a fronte di un irrilevante 0,6% nel Centro-Nord.
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