Tra il 1951 e il 2008 la popolazione del Sud si è ridotta di quattro milioni e mezzo di persone. Nei primi anni Sessanta lasciavano il Meridione in 300 mila l’anno. Alla fine degli anni Ottanta l’ondata migratoria sembrava esaurita e invece, tra il 1997 e il 2008, sono emigrati in 700 mila. «Nel solo 2008 il Sud ha perso oltre 122 mila residenti, trasferitisi nelle regioni del Centro Nord, a fronte di un rientro di 60 mila persone: una perdita di popolazione tripla rispetto a quella degli anni Ottanta» (Bianchi e Provenzano). La perdita di capitale umano è aggravata poi dal fenomeno del pendolarismo temporaneo di 173 mila persone, quasi tutte altamente scolarizzate, che ogni anno emigrano senza cambiare residenza.
Antonio Golino in “Distribuzione della popolazione, migrazioni interne e urbanizzazione in Italia” (1974), sottolineava come i flussi migratori interni avessero contribuito in misura massiccia ad equilibrare territorialmente la situazione demografica italiana ed a provocare una violenta accelerazione del rimescolamento della popolazione delle varie regioni: “sono questi peraltro due fra gli aspetti positivi di un movimento migratorio imponente, sul quale peraltro il giudizio non può che essere negativo; non fosse altro che per la motivazione prevalente che ne è stata e ne è alla base, che non è quella di una libera e fisiologica mobilità di lavoro, ma quella di una scelta obbligata di sopravvivenza”. In questo contesto (SVIMEZ) il tradizionale argomento circa i rischi derivanti dall’emigrazione di provocare nel Mezzogiorno un depauperamento delle risorse di capitale umano qualificato risultava più vivo che mai. Ed a tale rischio si aggiungeva il pericolo che il trasferimento del fattore-lavoro potesse avere effetti di potenziale deterrenza, o di sostituzione, della mobilità del capitale verso le regioni con surplus di manodopera, soprattutto in presenza di carenze sul piano della dotazione infrastrutturale e di altri fattori di competitività territoriale. In altre parole, allo stato attuale, di fatto risulta più conveniente, per il capitale e l’imprenditoria settentrionale, attrarre risorse umane qualificate dal Sud, piuttosto che affrontare costi di insediamento ed avviamento nel Meridione.
Si tratta degli endemici problemi drammatici e laceranti, che affondano le loro radici nella triste e amara storia del mancato sviluppo e di occasioni mancate, problemi per affrontare i quali sarebbe stato necessario rimuovere la cultura assistenzialistica e paternalistica, ma per i quali sarebbe stato altresì indispensabile promuovere politiche economiche e sociali più coraggiose. Ed ecco che l’unica risposta che si riesce ad elaborare è ancora quella di stimolare e per certi aspetti agevolare di nuovo la piaga endemica dell’emigrazione di Meridionali dalla propria terra. Dalla seconda metà degli anni Novanta, i flussi migratori interni dal Sud al Centro-Nord dell’Italia hanno registrato un incremento consistente rispetto a quanto accadeva a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Essi, infatti, sono gli anni della riduzione della grande emigrazione dal Mezzogiorno nel dopoguerra. Il flusso in partenza – sia verso le destinazioni straniere, sia verso il Nord del paese – si era ridotto a livelli molto bassi. Per quanto riguarda il saldo migratorio, il 1975 rappresenta l’anno in cui la percentuale di migranti registra i livelli più bassi e si assiste al fenomeno dell’“emigrazione di ritorno”. Attorno ad esso si alimenta il mito del cosiddetto “ritorno produttivo”, e cioè la convinzione che l’esperienza migratoria avrebbe dovuto concludersi con la possibilità di utilizzare nel proprio paese la formazione professionale acquisita. La crescita sociale e civile di questi anni, caratterizzati da un intenso sviluppo e da un forte intervento politico riformista, mette in discussione, infatti, l’emigrazione come alternativa per la soluzione del problema del basso reddito e della disoccupazione. Il governo, per affrontare questi problemi, si affida a una politica assistenziale nei confronti dello stesso Mezzogiorno.
A distanza di vent’anni, lo sviluppo del Meridione non raggiunge, però, i livelli sperati e i meridionali ritornano ad emigrare. Dal punto di vista storico-economico, in particolare, il 1993 è l’anno che ha inciso in maniera significativa sulla scelta di una grossa fetta di meridionali di emigrare dal Sud Italia. Una delle cause scatenanti è da ricercare nel blocco dell’intervento straordinario dell’Agenzia dello sviluppo nel Sud, organo che aveva sostituito la vecchia Cassa per il Mezzogiorno nel 1986. Gli anni Novanta sono, dunque, gli anni della “grande svolta”. L’emigrazione ha smesso di essere un fenomeno sociale eclatante. Non si vedono più “i treni del sole” che portano intere famiglie con tutti i loro averi. Perciò, da una parte è cambiata la tipologia di migranti, oggi i migranti meridionali hanno un livello di istruzione medio-alto, si spostano senza famiglia e sono più precari, perciò meno “identificabili” come migranti in cerca di fortuna. Dall’altra, ha assunto una portata notevole anche il pendolarismo di lungo raggio, ovvero la possibilità di rimanere ancorati alla propria famiglia d’origine e di fare il pendolare dal Sud a Nord, con maggiore turn-over e senza spostare la propria residenza. Sta di fatto, tuttavia, che dalla metà degli Novanta fino ad oggi il fenomeno migratorio ha assunto proporzioni paragonabili agli anni Sessanta se non superiori.
L’emigrazione dal Mezzogiorno è da sempre un sintomo evidente del disagio, della mancanza di lavoro, dell’inadeguato sviluppo, del ritardo rispetto ad altre aree del mondo o d’Italia. Il costante peggioramento della situazione occupazionale già prima della crisi, che ha visto il gap Nord-Sud allargarsi fin dal 1992 e divenire una voragine dal 2008, ha sortito l’effetto di un’accelerazione dell’immigrazione interna ed estera, in barba a tutte le più rosee e “sballate” previsioni. Dopo un picco nel 2008 vi è stato un calo del numero di coloro che trasferiscono la residenza all’interno dell’Italia, con un leggero recupero nel 2015 e nel 2016 rispetto ai minimi del 2014. Per concludere, il futuro non giuoca certo a favore del Mezzogiorno. La SVIMEZ ritiene che, nelle dinamiche territoriali, le migrazioni interne e quelle dall’estero continueranno a svolgere un ruolo rilevante e contribuiranno a ridefinire la geografia umana, in modo nient’affatto favorevole al Mezzogiorno che perderà 5,3 milioni di abitanti tra il 2016 e il 2065, a fronte di un assai più modesto calo (1,9 milioni) nel Centro-Nord. Vuol dire sette punti percentuali in meno nella quota di popolazione residente nel Sud, con valori che scenderebbero dall’attuale 34,4% al 29,2% del 2065.
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