La dimensione territoriale ed extra-territoriale degli stranieri e la connotazione politica che acquisì il controllo delle frontiere da parte dello Stato sono le novità più rilevanti dell’Ottocento, insieme alla comparsa del fenomeno migratorio
Lo sgretolamento dell’ancien régime, ovvero ciò che la propaganda rivoluzionaria francese identificò con il regime monarchico assoluto e le sue strutture, sotto i colpi incessanti della Rivoluzione francese, in un primo momento, e dall’età napoleonica, successiva alla prima, spalancò le porte al cambiamento epocale. L’universalità della Rivoluzione francese impose l’affermarsi di dottrine universali, il cui eco si diffuse in tutto il mondo allora conosciuto e con cui le potenze europee, ma non solo, dovettero necessariamente fare i conti, anche dopo la Restaurazione. Le dottrine rivoluzionarie, smussate dal dispotismo napoleonico, i suoi effetti e i suoi limiti non sono oggetto di questo articolo. Ciò che interessa sottolineare, riallacciandomi all’articolo precedente, è la conseguenza che tali accadimento scatenarono, cioè un cambio di paradigma. Il regime feudale, di fatto, fu abolito a vantaggio di una gestione del potere centralizzato nelle mani dello Stato; di conseguenza fu spazzata via anche la suddivisione in compartimenti stagni della società, la società cetuale tripartita. Nell’insieme, dunque, per dirla con le parole dello storico Sabatucci, “il dominio napoleonico rappresentò un potente strumento di svecchiamento delle Istituzioni e di mobilitazione della società civile”.
Un ragionamento che vale ancor di più per le aree più arretrate. A Napoli, per esempio, la feudalità venne abolita nel 1806. Ciò significa, spostando lo sguardo sull’argomento di interesse di questo articolo, che si estinsero “le molteplici giurisdizioni e i soggetti interessati a identificare lo straniero” e le miriadi “di procedure identificative con strumenti e finalità spesso tra loro distanti”, fenomeno che, come abbiamo osservato nell’articolo precedente, durante il regime feudale, pose freno ad un controllo più pervicace dei confini del Regno, mediante, per esempio, l’inserimento di una descrizione analita dell’individuo nel passaporto. Si inaugurò, pertanto, un lungo e conplesso percorso, per niente lineare, alla ricerca della ricetta giusta per assicurare un controllo centralizzato dei movimenti all’interno e all’esterno del Regno, che permettesse, dunque, di stringere le maglie della sorveglianza attraverso dispositivi moderni.
In effetti, il focus sugli stranieri ci permette di mettere a fuoco due aspetti fondamentali riguardanti la nuova veste assunta dal potere statale, come ha intuito la storica Laura Di Fiore, nel suo saggio “Alle porte della città, ai confini del Regno. Il controllo degli stranieri nel Mezzogiorno dell’Ottocento”. Il primo aspetto riguarda la “dialettica tra la dimensione territoriale, caratteristica della nuova geografia del potere sovrano e del suo rapporto con i sudditi”, ovvero un potere, che, non essendo più in concorrenza con altri soggetti giuridici – il che permise ai sovrani di eradicare quelle zone d’ombra all’interno stesso del territorio goernato – oramai si irradiava ovunque: un potere legato, dunque, all’idea di sovranità territoriale. E “quella extra-territoriale in cui gli stranieri, in virtù del proprio status, tendevano a gravitare”, legazioni e consolati esteri per intenderci, che spinse i sovrani a concedergli una condizione differenziata rispetto ai sudditi stanziali. Il secondo, invece, si riferisce “all’emergere, proprio a partire dalla cesura rivoluzionaria e napoleonica, della connotazione politica come centrale nell’ambito del controllo, nelle forme in cui esso venne declinato nel corso dell’Ottocento”.
La dialettica tra territorialità ed extra-territorialità, sovente, si trasformava in vera e propria dicotomia, che generò non poca confusione. Le nuove prerogative del Sovrano si imposero con forza durante il primo quindicennio del Secolo, con l’introduzione della “carta di ricognizione”, una sorta di carta d’identità, obbligatoria per tutti, in cui figurava il signalement, cioè la descrizione analitica del soggetto, e la profilazione della polizia come “l’istituzione chiave del controllo statale sugli individuisi”. Tuttavia agli stranieri, proprio in virtù della dimensione extra-territoriale in cui vivevano, fu fatto obbligo di possedere anche un passaporto per lasciare il Regno. In seguito alla Restaurazione la procedura si fece più snella: bastavano, infatti, il visto dei propri agenti diplomatici a Napoli e il visto della prefettura. Senonché, due anni dopo si decise per l’inversione di rotta, tornando al controllo regio delle uscite. Dopo la levata di scudi da parte degli agenti diplomatici, si giunse ad un accordo: lo straniero poteva viaggiare all’interno dei confini del Regno munito di passaporto napoletano, mentre poteva lasciare il regno con il passaporto rilasciato dal proprio agente diplomatico. E’ il cortocircuito di un sistema in stato embrionale: gli stranieri in uscita dal Regno, infatti, arrivarono a possedere due passaporti. A tale stato di cose si cercò di porre rimedio nel 1832: lo straniero in uscita dal paese avrebbe dovuto consegnare il passaporto napoletano alla frontiera, il che scatenò veementi rimostranze perché essi avevano sborsano una somma considerevole di denaro per ottenerlo. Anche in questo caso il Re fu costretto a tornare sui suoi passi.
Riguardo, invece, al controllo degli stranieri in entrata, il sistema faceva perno “sulla costruzione di una rete di controllo all’estero che ricalcava quella diplomatico-consolare e che avrebbe dovuto fungere da primo filtro per l’ingresso nei domini napoletani”. In questo modo i regi agenti all’estero “avevano il vantaggio della prossimità al luogo di partenza dei viaggiatori e dunque una maggiore possibilità di reperire informazioni sul loro conto, anche eventualmente attraverso il ricorso alla polizia locale”. Lo stretto nesso tra il governo centrale e i suoi rappresentanti all’estero imperniato sulla circolazione delle informazione permetteva al primo di “impartite istruzioni relative all’interdizione di rilasciare passaporti a taluni individui o categorie di persone”. Nonostante la fitta ragnatela di controlli che andava man mano istituzionalizzandosi, il sistema venne messo in crisi dall’interno: si evidenziò, infatti, la poca solerzia con cui la polizia annotava le descrizioni fisiche degli “individui di distinzione”, nobiltà, alte cariche ecclesiastiche e militari, per intenderci. Sfuggiva al controllo della polizia, inoltre, anche lo stuolo di domestici al loro fianco, tra i quali, sovente, si mischiarono non solo persone giudicate sospette o pericolose, ma anche persone precedentemente colpite da decreto di espulsione. Furono le contingenze politiche a superare lo status quo, a favore delle prerogative del sovrano: l’attenzione sugli stranieri si rivelava senz’altro cruciale in tempo di moti insurrezionali.
Il controllo dei movimenti all’interno e all’esterno dei Regni, dunque, fu dettato, più che da un’esigenza dei singoli Stati, dai rivolgimenti politici dell’Ottocento, che misero in allarme le famiglie regnanti europee, le quali avevano compreso, sulla scorta della Rivoluzione francese, come una rivoluzione scatenatasi all’interno di confini ben definiti, potesse invece travalicarli facilmente e trascinare nuovamente nel caos l’intera Europa. Senza dimenticare, tra l’altro, che la questione della dimensione territoriale ed extra-territoriale degli stranieri e la connotazione politica che acquisì il controllo delle frontiere da parte dello Stato si intrecciava a doppio filo al fenomeno forse più importante del secolo XIX, come lo definisce uno dei più illustri storici del ‘900, Eric J. Hobsbawm, che pose fine al profondo tradizionalismo secolare e localizzato: la migrazione dei popoli. Nella maggior parte del mondo, infatti, prima del 1820 quasi nessuno ancora si spostava o emigrava se non perché costretto dalla forza delle armi o dalla fame, o perché apparteneva a uno di quei gruppi tradizionalmente nomadi. La contingenza politica scatenata dai moti ottocenteschi e la migrazione selvaggia dei popoli, dunque, fu il combinato disposto, quasi una bomba ad orologeria, che spinse i nascenti Stati Europei a dotarsi di dispositivi adeguati al controllo del proprio territorio ed assicurarsi, in questo modo, la sopravvivenza.
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